Igiene, spiritualità e tradizione al Wat Bang Phra

7 Mar 2018

A T T E N Z I O N E quello che state per leggere è il racconto della visita di una giornata in uno dei luoghi di culto del Sak Yant su cui appassionati di tutto il mondo discutono e si confrontano regolarmente.
Alla luce di tante vostre domande, dei vostri diversi racconti e delle vostre curiosità, ci siamo recati sul posto per cercare di raccontarvi cosa si può trovare al Wat Bang Phra riguardo le tematiche di cui ci chiedete maggiormente lumi: l’igiene, la spiritualità e il rispetto della tradizione tatuatoria thai.
Quella che ci accingiamo a raccontare è la storia di un’esperienza che può ovviamente risultare differente o analoga a ciò che possono aver vissuto i nostri lettori. Lo scopo di questo articolo è solamente quello di offrire uno spaccato della vita di questo luogo.

Bangkok, 7 marzo 2018, anzi 2561 secondo il calendario buddista.
Avantieri la nostra meta è stata il Wat Bang Phra, il “Tattoo Temple”, un tempio famoso in tutto il mondo perché al suo interno si pratica il Sak Yant.
La storia di questo luogo è strettamente legata a quella del suo monaco più celebre, Luang Phor Pern, colui che ha conferito al tempio la peculiarità di essere il luogo di culto per eccellenza dei Sak Yant.

Da ciò che abbiamo potuto apprendere da Eak, quarantaseienne devoto di Luang Phor Pern da quando aveva diciannove anni, il monaco portò per primo la pratica del Sak Yant nel tempio insegnandola agli altri monaci con i quali in seguito, la trasmisero ad altri Ajarn che vennero poi ammessi a praticare nel tempio stesso.
L’area del tempio è vasta e suddivisa in diverse aree: le zone di culto, gli alloggi dei monaci e le aree nelle quali è possibile farsi tatuare facendo la fila come dal dottore.
A tatuare non ci sono solamente i monaci ma anche diversi Ajarn. Quelli che abbiamo incontrato questa volta tatuavano all’aperto, chi all’ingresso di un edificio di culto e chi in un loggiato.

Il tempio sembra aver fatto degli sforzi per raggiungere degli standard sanitari accettabili cercando di rassicurare i visitatori stranieri con dei cartelli che suggeriscono l’adozione di alcune misure di pulizia. Abbiamo visto usare dei rod (i “bamboo”, le aste da tatuaggio tradizionale) che sembravano non avere la parte dell’ago monouso e che venivano semplicemente immersi in alcune bocce d’alcol celeste come unico metodo di disinfezione. I rod avevano tutti la punta tradizionale, quella con l’ago più spesso e la fessura al centro. Una volta impiegato, l’ago dell’asta veniva pulito a mano con un pezzo di carta, immerso nell’alcol e poi riusato.
Un monaco che si accingeva a tatuare un devoto, prima di cominciare ha affilato la punta del rod strofinandola con la carta vetrata senza poi operare alcuna pulizia dell’ago. Incurante di avere le mani visibilmente non pulite, ha cominciato a tatuare mentre contemporaneamente parlava al cellulare tenendo premuto lo smartphone all’orecchio con la spalla sinistra e fumando con la mano destra con la quale dava i tocchi con l’asta.
In un’altra stanza abbiamo trovato una fila particolarmente numerosa di persone che attendevano il loro turno in religioso silenzio. Seduto su un cuscino, un monaco (il cui viso si può facilmente ritrovare nei risultati di google immagini) stava insolitamente tatuando a macchinetta.
L’atmosfera che abbiamo respirato nel corso di questa visita pareva poco spirituale. Le persone in fila che sembravano suscitare qualche sbuffo ai monaci per il numero di tatuaggi da sbrigare, attendevano pazienti il loro turno. La compresenza di tanti devoti rendeva, a seconda del punto di vista, la seduta di Sak Yant meno intima o semplicemente condivisa.
La nostra visita si è svolta dopo pochi giorni un grande “festival” il Wai Khru Day dedicato al veneratissimo Luang Phor Pern di conseguenza il tempio non era particolarmente gremito di visitatori. Nonostante la calma del giorno, ci è stato comunque difficile trovare qualcuno a cui rivolgere delle domande senza che ci venisse chiesto di acquistare amuleti, magliette o altro merchandise vario. Data la natura della nostra visita e il viaggio fatto per arrivare sin lì eravamo determinati a lasciare quel tempio con delle informazioni, dei cenni storici o semplicemente dei racconti ma nessuno parlava inglese.

Non vi era interazione alcuna, con nessuno, se non i continui tentativi di farci acquistare dalle bancarelle oppure di invitarci a farci tatuare. I monaci che abbiamo visto tatuavano a ripetizione senza alcun legame (apparente) con i propri studenti. L’esatto opposto di quello che accade nei samnak degli Ajarn.​​
Fortunatamente abbiamo incrociato un devoto che frequenta il tempio da ben ventisette anni e​​ che ha avuto l’opportunità di ricevere il suo primo Sak Yant, il Khao Yord, direttamente dalle mani del leggendario Lunag Phor Pern. Eak, la nostra guida d’occasione, ci ha raccontato la storia del tempio, delle opere di beneficienza della sua guida spirituale e di come questa abbia sempre fatto tanto per la comunità.

Lui che ha disegnato due dei Sak Yant ​​più popolari al mondo, il Phet Tidt a stella e una versione della tigre in attacco, con i soldi delle offerte ha finanziato una clinica per la gente del posto.
Contenti di aver finalmente trovato qualcuno che si sia preso la briga di spiegarci qualcosa, abbiamo salutato il Wat Bang Phra con la solita sensazione di incompletezza che accompagna buona parte delle visite di questo genere.​​
Mentre per noi occidentali in generale la dimensione spirituale e quella del consumismo viaggiano su due rette ben distinte, qui in Tailandia invece sembrano non avere una demarcazione che le separa. L’unico confine visibile ci è sembrato ancora una volta quello tra l’esperienza spirituale offerta ai thai e quella offerta agli occidentali.